Paolo Montevecchi ci parla di Etnograph S.r.l.
Etnograph è un’azienda che si occupa di progettazione di servizi, prodotti e sistemi. Lavoriamo in ambito di design delle esperienze, dei servizi, design dei sistemi e dei prodotti. Ci occupiamo di architettura dell’informazione.
La nostra tag line è “Design for Understanding”, che sottolinea un aspetto molto importante per noi, ovvero l’aspetto della comprensibilità, elemento fondamentale per poter attivare un ampio spettro di possibilità. La semplicità è un termine che noi rifuggiamo perché in un mondo così complesso spesso non si può più ottenere la semplicità, mentre è più interessante e realistico raggiungere la comprensibilità.
Che cos’è l’architettura dell’informazione?
L’architettura dell’informazione è diverse cose, come il design in realtà. È una disciplina che si può rifare a un qualcosa che noi chiamiamo system thinking, ovvero un pensiero sistemico che ha origine nel secolo scorso ed è stato utilizzato moltissimo, per esempio, per tutto quello che riguarda la previsione del futuro. L’architettura dell’informazione è una disciplina, appunto, che si occupa di organizzare le informazioni e che ha origine da quel tipo di pensiero. Negli anni ’90 si afferma come pratica digitale, legata all’organizzazione dei contenuti web.
L’architettura dell’informazione ha più di una definizione, purtroppo non è una cosa così semplice, è come chiedere “cos’è la matematica?”. È la capacità di correlare le parti di un sistema, considerando un sistema come costituito da diversi elementi, diverse entità. L’architettura mette insieme questi elementi in modo tale che poi siano più semplici da comprendere. Si comprendono le relazioni tra le parti, causa effetto, insieme a tante altre relazioni. Se dovessi dire in sintesi cosa facciamo da Etnograph, ecco, direi che noi riusciamo a collegare parti di sistemi in modo comprensibile, creando un senso.
Quali sono i sistemi su cui intervenite e come riuscite a renderli comprensibili?
Per esempio, un portale di una pubblica amministrazione che ha tantissime informazioni, tantissima complessità e un pubblico molto vasto, dove si ha la necessità di far capire a ogni singolo quale potrebbe essere la sua strada. È una cosa molto complessa e non è semplificabile. Aggiustando le relazioni tra le parti, noi pian piano costruiamo un’architettura che aiuta nel tempo le persone a trovare la loro strada in questa intricata foresta di informazioni o elementi che non si capisce come sono collegati tra di loro.
In questa costruzione vengono utilizzate tecniche specifiche per classificare le informazioni e renderle disponibili. Si tratta di tecniche o strumenti che servono per organizzare sistemi complessi che sono poi distribuiti su un sito web per esempio.
Questa metodologia si applica allo stesso modo, quando viene richiesto di costruire e strutturare l’identità di un’organizzazione. L’identità di un’organizzazione è fatta anch’essa da parti, per esempio i valori di base, le persone che lavorano all’interno dell’organizzazione, la gerarchia esistente, le tipologie di relazioni tra i vertici e gli altri reparti. Così fino ad arrivare all’identità visiva, la relazione che l’azienda vuole avere coi clienti e come sceglie di comunicare all’esterno. Queste sono tutte parti di un sistema. Se applichi lo stesso mindset, lo stesso punto di vista, puoi costruire un sistema coerente, che ha una sua architettura, che è unica, nel senso che ogni organizzazione ha il suo modo di essere e vuole raggiungere degli obiettivi sia interni, sia esterni.
Questo cosa poi la possiamo vedere in altri aspetti ancora. Il servizio è sostanzialmente un’architettura fatta in forma differente, cioè non è un singolo touchpoint, quindi non è un sito web, ma più siti, più app, più elementi, così come un’organizzazione ha più touchpoint all’interno che devono essere orchestrati, coordinati tra di loro affinché le persone trovino sempre una sorta di filo rosso di collegamento.
La creazione di un’architettura ha ovviamente degli obiettivi che variano a seconda del progetto e della realtà. Ad esempio, per un ente pubblico, riuscire a erogare più servizi; Per un’azienda, trovare una coerenza e un’identità, per riuscire a comunicare dal profondo un messaggio verso i propri potenziali clienti e quindi attirare quelli che sono più compatibili con i loro valori.
Questa in generale è la chiave di lettura di come noi interpretiamo i progetti ed è sicuramente un elemento che ci contraddistingue.
Come lavora il team di Etnograph e qual è il vostro target?
Ci sono proprio tante attività pratiche, una grande quantità di contenuti che vanno classificati. Bisogna capire come le persone pensano a questi contenuti. Per questo facciamo moltissime attività con le persone, test, survey, co-interviste, sostanzialmente attività in relazione con le persone.
Non abbiamo un target specifico o un progetto tipo. Fondamentalmente si rivolge a noi chiunque abbia bisogno di organizzare l’informazione o abbia bisogno di sviluppare un prodotto, digitale o non digitale. Principalmente lavoriamo in ambito digitale, perché comunque è tutto ormai abbastanza legato a questo mondo.
Ci rapportiamo con diversi tipi di realtà di diverse dimensioni, grandi e piccole con diversi tipi di progetti e richieste. Lavoriamo con startup, PA, multinazionali, PMI e molti ancora. Ci mettiamo in gioco anche all’interno di realtà internazionali, per esempio, abbiamo lavorato per una società multinazionale su un progetto per un team multilingua, con cui abbiamo iniziato un percorso di allineamento dei contenuti e dei concetti aziendali, in modo tale che i vari dipartimenti riuscissero a comunicare tra loro in maniera efficace riferendosi per esempio a quali sono i loro target. Prima che arrivassimo noi, non avevano un modo univoco per identificare i target e questo rendeva spesso la comunicazione e le relazioni molto difficili e frammentate. Sembra semplice da costruire, ma è in realtà è molto complesso.
Qual è il legame tra Etnograph e lo sviluppo software?
Noi non sviluppiamo software, questa è una frase che uso di solito quando mi presento. Personalmente ho fatto questo lavoro e ho scoperto che c’è bisogno di andare oltre il semplice sviluppo. Ho scoperto che è necessario mettere insieme e far dialogare chi fa software con chi invece pensa a come i software possano relazionarsi con le persone, perché sono due punti di vista differenti.
Chi è all’interno di Etnograph ha diverse estrazioni: da noi trova spazio chi ha studiato design di prodotto, chi ha fatto un master in architettura dell’informazione, chi ha studiato semiotica o fatto percorsi in ambito di digital humanities e cultural economics. Anche avere competenze tecniche informatiche è molto importante, io stesso appunto avendo queste competenze, sono in grado di dialogare con chi sviluppa software, ma come azienda siamo sempre aperti a nuove contaminazioni.
In generale, le varie discipline si stanno riavvicinando. Aumentando la complessità, c’è bisogno di mescolare le cose, non basta più che un ingegnere si limiti solo a fare quello per cui ha studiato, così come vale lo stesso per un laureato in lettere. Per esempio ci sono persone che studiano lettere o semiotica, ma che decidono di avvicinarsi all’IT per capire cosa significa comunicare attraverso un sistema digitale. Chi ha studiato design, si avvicina alla tecnologia perché progetta oggetti tecnologici. Io ho fatto l’opposto, cioè io ho imparato cosa significa sviluppare software e sono andato verso chi progetta.
Quello che noi cerchiamo è questa plasticità, perché è più interessante delle nozioni. La plasticità serve perché le cose sono sempre più complicate e bisogna mettere insieme pezzi che non sono sempre parte della stessa disciplina. La plasticità è molto più interessante del puro nozionismo.
Che cos’è WIAD e come siete arrivati ad organizzare WIAD Cesena?
WIAD è una bellissima iniziativa, un evento creato da due architetti dell’informazione statunitensi, Abby e Dunn, che conosco personalmente. Per esteso, il World Information Architecture Day è una celebrazione annuale, iniziata nel 2012, una giornata che riunisce professionisti e appassionati di architettura dell’informazione in decine di località in tutto il mondo.
Negli anni ‘90 con il boom del web viene pubblicato il libro “Information Architecture for the World Wide Web”, un manuale scritto da Louis Rosenfeld e Peter Morville in cui si è cercato di definire il ruolo dell’Information Architecture e l’ambito applicativo, divenendo un grande punto di riferimento per questo settore. Da questo libro e da queste persone è nata una community molto forte, che costituì un’associazione, un movimento. All’interno di questa community è emerso un personaggio, J.J. Garrett, che ha creato una sorta di rottura e ha fatto da traghettatore nel passaggio da un web sviluppato dai webmaster che parlavano di architettura dell’informazione a tutto ciò che è diventato UX Design, cioè un qualcosa di molto più complesso, molto più articolato. Da questa community, da queste persone è nato in seguito questo evento annuale comunitario, una sorta di pride degli architetti dell’informazione.
Come Etnograph organizziamo WIAD Cesena, una giornata di interventi e di approfondimenti in ambito dell’architettura dell’informazione che ci rendono partner attivi all’interno di questa community internazionale.
È stato possibile conoscere questa realtà americana grazie ai dei ponti di collegamento tra noi e loro. In Italia esiste un’associazione, Architecta, una delle poche rimaste al mondo a promuovere la cultura dell’architettura dell’informazione e dello human-centered design. Grazie ai contatti con Architecta, alle relazioni costruite nel tempo, basate su interessi reciproci e su una comunione d’intenti, siamo arrivati a costruire WIAD Cesena ed è stato bello portare un evento internazionale in una città romagnola, piccola e accogliente come Cesena.
Come nasce il tuo incontro con il D.I.R.?
Ho conosciuto Claudio Buda di Mango Mobile Agency che mi ha parlato del Distretto e delle sue attività. Oltre a lui, anche alcuni professori universitari come Marco Boschetti e Alessandro Ricci mi hanno colpito molto nella spiegazione del manifesto del Distretto dell’Informatica Romagnolo. In generale conosco molti professori perché ho fondato insieme ad altri amici S.P.R.I.Te, associazione studenti del polo romagnolo in Informatica e Tecnologie, ancora attualmente molto attiva all’interno del campus universitario. Dalle parole e dai racconti di Claudio, Marco e Alessandro riguardo le attività del D.I.R., ho deciso di aderire all’associazione, portando Etnograph all’interno di questa comunità digitale, dove ho trovato aziende e persone molto competenti in diversi ambiti informatici, ma nessuno in architettura dell’informazione. Questo ha consentito di creare collaborazioni e scambi di idee, in grado di migliorare e arricchire il nostro bagaglio di esperienze e relazioni. Dialogare con persone che la vedono in modo diverso da te, per riuscire a fare cose migliori. Questo funziona sempre, perché non ha senso rimanere solamente nella propria cerchia. Bisogna invece provare a mescolare le carte, continuamente.
Qual è il rapporto tra Etnograph e i nuovi talenti?
Con l’Università di Bologna, San Marino e Pesaro abbiamo una convenzione per poter attivare diversi progetti di tirocinio. Formare i ragazzi è un tema sicuramente complesso e noi, essendo una piccola realtà aziendale, stiamo cercando definire dei flussi organizzativi mirati, ma non è semplice.
Come mai la formazione dei giovani è un tema complesso?
Ci sono molti giovani che hanno un visione un po’ alterata delle loro competenze, nel senso che pensano già di saper fare molto una volta terminati gli studi. In realtà quando arrivi in un’azienda come neolaureato, potresti metterci anche tipo quattro anni per iniziare ad essere autonomo su alcune competenze. Forse anche di più. C’è un gran desiderio di arrivare subito, c’è una gran fretta di voler essere già molto bravi e avere un ruolo senior.
Per me serve tanto desiderio, tanta ricchezza personale. Se uno è appassionato e riesce a mettere questa passione nel lavoro, il lavoro viene per forza bene. All’interno dei percorsi di tirocinio, cerchiamo di far appassionare i ragazzi al lavoro in generale, più che a una particolare disciplina.
Qual è la chiave per far appassionare le nuove generazioni al mondo del lavoro?
Secondo me parte tutto da dentro, bisogna che i ragazzi trovino e sviluppino la loro passione, cioè qualcosa che a loro piace davvero. Trovato questo, troveranno la chiave di svolta. È proprio questo quello che ho fatto io. A me stava troppo stretto sviluppare software, sono andato oltre e ho trovato quello che mi sembrava più gratificante per me.
Studiare una materia è utile, ti da delle competenze, ma la conoscenza è solo un mezzo per raggiungere un obiettivo. Il fine è trovare una realizzazione in quello che si sceglie di fare ogni giorno.